Vent’anni, tedesco, originario della bassa Sassonia; il suo piatto preferito è la carbonara anche se, dice, sta affinando la ricetta per riprodurla in Germania ora che ha concluso il suo anno di volontariato internazionale. Per lui, Philipp, povertà è marginalità, essere esclusi dalla possibilità di godere di una vita sociale. Una povertà, continua, “non necessariamente tangibile dall’esterno” ma con cui ha avuto modo di entrare in contatto grazie all’esperienza con la Fondazione Arca del Mediterraneo, frutto della partnership con la IJGD, associazione che permette ogni anno a oltre 5000 giovani tedeschi di spendersi per gli altri nel proprio paese o all’estero.

“In questi mesi di volontariato ho lavorato a Foligno nell’Ufficio Immigrazione dell’Arca e in particolare nella prima accoglienza. Sono stato in contatto con uomini, donne e bambini vulnerabili provenienti da altri paesi. La IJGD mi aveva dato la possibilità di scegliere tra diversi progetti: io avevo voluto questo con l’Arca perché gli altri mi erano parsi più monolitici, meno sfumati e avevo intuito che qui c’era invece la possibilità di essere esposti ad attività e a persone diverse, anche di culture molto lontane tra loro.”

L’input per partire per un anno però, dice, è stata la conclusione della scuola. “Dopo le superiori non sapevo cosa fare. Sentivo la pressione della scelta, la fretta del dover decidere e di doverlo fare bene, che è una cosa a cui ti spinge molto la società che hai intorno. Dall’altro lato sentivo il bisogno di avere più tempo. Poi un mio professore mi ha detto che il volontariato poteva essere un’opzione e uno strumento buono per riflettere.” È stato lì, confessa, che l’idea di andare all’estero ha iniziato ad accarezzarlo, legittimato anche dal fatto che tanti altri giovani come lui avevano abbracciato quella stessa scelta, dandosi il permesso di fermarsi e di prendersi un tempo a doppio senso: per sé e per gli altri. E in questo doppio binario, racconta, quello che più ha contato sono proprio le relazioni. “Un primo livello è stato quello con gli operatori dell’Arca che mi hanno tutti supportato e compreso, perché l’impatto con la lingua italiana è stato molto duro per me. Io sono una persona a cui piace conversare e arrivare ad un dialogo profondo, personale, e il fatto di non potermi spostare tra i diversi livelli mi faceva sentire frustrato. Poi, piano piano, è diventato sempre più facile. Le persone che ho incontrato qui mi spiegavano le cose anche due o tre volte e sono state tutte molto amichevoli. È stato molto bello e non lo dò affatto per scontato: questa pazienza degli altri, anche quando sbagli. Una persona che porterò nel cuore è Anton, un ragazzo palestinese venuto qui come me, ma grazie ad un altro programma, e con cui ho condiviso l’alloggio. Abbiamo vissuto le stesse sfide, specie con la lingua, e ci siamo aiutati tantissimo. Con i beneficiari è stata ancora un’altra esperienza, anche questa molto positiva. Tutti che avevano voglia di parlare, di ringraziare… Tanti altri erano lì, che ti offrivano un tè, e lì toccavi con mano la felicità del fare qualcosa di bello per gli altri. Io in un certo senso potevo essere davvero dalla loro parte perché vivevano gli stessi problemi che avevo vissuto io all’inizio, con la lingua per esempio. Così sono stato anche il loro interprete in tante occasioni e ho potuto ridare indietro a loro tutto quell’aiuto che avevo ricevuto da altri.”

Del confronto con l’Italia e con Foligno dice: “All’inizio sono rimasto scioccato dal modo di guidare – ride – ma ho adorato il contatto con la cucina mediterranea. La cosa più bella di tutte? La Quintana, che ho visto due volte. Anche in Germania abbiamo le nostre tradizioni ma sono rimasto impressionato dal legame che la gente qui ha con le proprie radici, con le rievocazioni, con il posto. Da noi non è così forte, qui invece ho respirato molto questa connessione.” E aggiunge: “In Italia il modo di lavorare e di pensare è molto meno rigido rispetto alla Germania e l’ho apprezzato molto. C’è un modo di fare molto più flessibile, che ti permette di goderti le cose che stai facendo. In questo senso c’è un clima molto più rilassante, che non ti fa sentire la pressione, anche della scelta.”

E se pensa al cambiamento dice: “Grazie a questa esperienza con l’Arca mi sono aperto molto. Ogni persona che ho incontrato mi ha stimolato allo scambio, e questo mi ha aiutato ad aprirmi. All’inizio non ero così. Adesso sono orgoglioso di esserci riuscito, è una lezione che tengo stretta per la vita. Ho anche scoperto che mi piace stare con le persone e che aiutare mi dà un senso di serenità perché puoi avere un impatto, piccolo o grande, sulla vita degli altri. È vero che si possono aiutare le persone in tanti modi, qualsiasi cosa fai, ma in questo anno ho capito che voglio continuare ad avere un impatto positivo attraverso il mio lavoro, come ho fatto con l’Arca. Un altro punto che ho messo a fuoco è il contesto multiculturale: è un aspetto che vorrei ci fosse nel mio futuro perché per me genera un livello molto interessante di relazione, di scambio, che voglio continuare ad avere.” È per questo, racconta, che al termine di questo anno di volontariato ha deciso di iscriversi alla Facoltà di Scienze Politiche, in Germania, per la quale è già stato accettato. “A ottobre inizieranno le lezioni ma voglio godermi gli ultimi giorni qui in Italia. Ai giovani della mia età vorrei dire: fare volontariato è un’esperienza che ti cambia la vita e che ti rimane dentro per sempre. Vale la pena fermarsi per testarsi nei propri limiti e nei propri punti di forza e usare entrambi per aiutare gli altri. È per la vita.”